Frammento di iscrizione romana
Materiale: marmo bianco, verosimilmente lunense.
Misure: largh. cm 55,5; alt. cm 59,5; spess. cm 9,5.
Provenienza: ignota.
Collocazione attuale: Pesaro, Cenobio di San Bartolo, a sinistra del portale della Chiesa di San Bartolo.
Il frammento fu recuperato nell’aprile del 1991 a seguito di lavori di manutenzione e restauro del Convento di San Bartolo, dove era impiegato per occludere un pozzetto nell'area scoperta del chiostro porticato del complesso architettonico. Il recupero del frammento, di indubbio interesse, ha consentito di prendere visione in concreto di un documento epigrafico, fino a quel momento noto solo per via manoscritta. Il testo dell’iscrizione era stato infatti trascritto da mano non identificata in carte contenute in un manoscritto di Sebastiano Macci (per il quale vedi CIL XI, p. 938), erudito attivo alla fine del Cinquecento e nel primo quindicennio del Seicento. Sulla base molto probabilmente di questa prima fonte il titulus fu in seguito documentato dall’Oliveri (de Abatibus Oliverius 1737: «In Coenobio PP. S. Bartholi in Monte Accio literis praegrandibus»), dal Colucci (Colucci 1789) ed infine da E. Bormann (CIL, XI, 6398). Più di recente, l’iscrizione è stata poi menzionata da Cresci Marrone e Mennella, che, considerandola perduta, si rifanno alle edizioni dell'Olivieri e del Bormann (Cresci Marrone - G. Mennella 1984). Il recupero del frammento ha di fatto fugato eventuali dubbi, tra l’altro mai espressi dai vari editori, sulla autenticità del documento epigrafico.
Per attagliarsi alle dimensioni del pozzetto, il manufatto marmoreo risulta resecato su tre lati, con l’eccezione di quello superiore. Il lato integro reca ancora ben visibili le cavità poco profonde di fissaggio delle grappe (cm 2 x 6). Le lettere, eleganti e ben ordinate, sono alte cm 18 nella prima linea, 11 circa nella seconda, 8 nella terza. Le larghezze variano: nella prima linea dai 13 cm della G ai 10 della S; nella seconda linea dai 9 della N agli 11 della M; nella terza dai 4/6 cm della R ai 10 circa della M.
Le trascrizioni proposte dai vari editori (Oliveri, Bormann), lasciano supporre, nella loro diversità, che il frammento trascritto nel codice macciano potesse essere meno esiguo dell'attuale. In ogni caso il testo epigrafico è oggi così ridotto:
[- - -]gus[- - -]
[- - -] nom [- - -]
[- - -]rum
Relativamente all’impaginazione: la G è allineata con la R della linea 3, mentre l'inizio della linea 2 è occupato da un segno di separazione.
La presenza delle cavità per le grappe sul lato superiore del frammento e sul lato opposto di una chiara frammentazione lasciano ipotizzare che quanto attualmente resta dell'iscrizione è verosimilmente parte della prima linea del testo epigrafico antico, mentre è improbabile che la terza linea possa essere l’ultima, sebbene l'impaginazione possa suggerirlo, considerato l'interlinea troppo ampia che separerebbe la terza linea dalla ipotetica quarta linea 4. Ne consegue dunque che il titulus potrebbe originariamente essersi sviluppato sia a destra che a sinistra e forse anche nella parte sottostante il frammento attualmente visibile. Tuttavia, l'impaginazione della terza linea con una porzione di specchio anepigrafe dopo la M, può suggerire che il taglio della pietra abbia resecato al di sotto una parte non consistente e non incisa.
Alla luce di tali considerazioni, l’integrazione [--- Au]gus[tal- ---] della prima riga, già proposta dal Bormann (CIL, XI, 6398) e accettata da Cresci Marrone e Mennella (Cresci Marrone – Mennella 1984, pp. 311-312), appare molto probabile, tenuto anche conto che in ambito locale la più consueta abbreviazione aug(ustalis) è affiancata dalla abbreviazione augustal(is) (vedi Cresci Marrone – Mennella 1984, nn. 71 (= CIL, XI, 6360), 90 (= CIL, XI, 6379), sebbene non si possa escludere che augustalis fosse inciso per intero (così Agnati 2000, p. 277). Tale integrazione è accetta dall’edizione del titulus nell’ Epigraphic Database Roma (EDR 016062), che propone la seguente ricostruzione del testo epigrafico superstite:
-------
[--- Au]gus[tal- ---]
[---] nom[ine? ---]
[---]rum [---]
5 ------
Alla luce di questa ricostruzione, una prima ipotesi potrebbe essere che si tratti della dedica di un edificio, ovvero del ricordo di un restauro, o anche di un qualsiasi evergetismo o consacrazione, da parte di un gruppo di augustales o di un collegio di augustales (così Cresci Marrone – Mennella 1984, pp. 311-312). Se così fosse è possibile supporre l’esistenza di un elenco di nomi sottostante le tre frammentarie righe superstiti, cosa che giustificherebbe anche l'impaginazione della terza linea, qualora subito precedente l'elenco. In tal caso il frammento sarebbe parte di una epigrafe molto più grande e consistente (vedi Agnati 2000, p. 277). Una seconda ipotesi, forse la più fondata, è che il frammento sia parte dell'iscrizione commemorativa di un singolo augustalis, che ha compiuto qualche atto evergetico a nome suo e di figli o familiari (così Agnati 2000, p. 277). La presenza delle cavità per le grappe conferma l'esposizione su una parete dell'iscrizione.
Sulla base della paleografia e del contenuto del titulus si può proporre una sua datazione al I secolo o, al più tardi, all'inizio del II secolo d.C. (così Agnati 2000, p. 277 e EDR 16062). Visto il carattere pubblico dell’iscrizione non è improbabile una sua provenienza dal contesto urbano della colonia di Pisaurum. Diversamente è stata ipotizzata la provenienza da un qualche contesto pubblico (forse cultuale) posto in prossimità del tratto di via Flamina che collegava Pisaurum alla mansio di Cattolica, non lontano dalle Siligate (toponimo che reca memoria di una via silice strata) ed anche dal colle di S. Bartolo (così Agnati 2000, p. 277). (Stefano De Angeli)
Bibliografia: H. de Abatibus Oliverius, Marmora Pisaurensia notis illustrata, Pisauri 1737, p. 11, n. XXV; G. Colucci, Antichità picene, VI, Fermo 1789, p. 219); Corpus Inscriptionum Latinarum XI, 6380; G. Cresci Marrone - G. Mennella, Pisaurum, I. Le iscrizioni della colonia, Pisa 1984, pp. 309-312; U. Agnati, Note di epigrafia pisaurense, in Epigraphica, 62, 2000, pp. 273-277; L'Année épigraphique 2000, 550; Epigraphic Database Roma (EDR) 16062.
Frammento di iscrizione romana prima del restauro
Frammento di iscrizione romana dopo il restauro
Rilievo figurato tripartito con motivi dionisiaci
Materiale: marmo grigio a grana fine, verosimilmente bardiglio.
Misure: largh. cm 146,6; alt. cm 59,5; spess. cm 3,8 (min.), 5, (mass.).
Provenienza: ignota.
Collocazione attuale: Pesaro, Cenobio di San Bartolo, a sinistra del portale della Chiesa di San Bartolo.
Il frammento fu recuperato nell’aprile del 1991 a seguito di lavori di manutenzione e restauro del Convento di San Bartolo, dove era impiegato, con la faccia principale rovesciata, come gradino dell’ingresso principale della Chiesa di S. Bartolo. I
l rilievo è parzialmente conservato e delle tre scene figurate che lo compongono, quella di sinistra risulta mancante per metà. Tale lacuna è frutto della rilavorazione del rilievo eseguita per adattarlo a gradino, come si percepisce chiaramente dalla visione della sua faccia posteriore, che fungeva, nel suo reimpiego post-antico, da ampia pedata del gradino di ingresso alla Chiesa. Oltre a ridurne la larghezza (con la perdita di metà della scena di sinistra), sono stati arrotondati gli angoli inferiori del rilievo e, al fine di una sua corretta posa come gradino, è stata leggermente ribassata la superficie della fascia liscia che insieme ad un piccolo listello incorniciava le tre scene figurate. Mentre il listello è ancora in gran parte conservato, della fascia liscia della cornice resta solo una piccola porzione all’estremità destra del rilievo. Una frattura, ora ricomposta e determinatasi verosimilmente in occasione del lavoro di smontaggio del gradino, è visibile nella parte superiore sinistra del rilievo, di cui si conservano ancora integri i margini destro, inferiore e superiore. La superficie della faccia posteriore del rilievo, ancorché non priva di alcune fessurazioni, dovute alla lunga esposizione e all’impiego come pedata di gradino, presenta ancora una parziale levigatura che valorizza le qualità e la cromia del marmo. Diversamente, gran parte della superficie della faccia anteriore del rilievo risulta essere alquanto corrosa e ha perso completamente il suo originario aspetto. Solo all’estremità destra del rilievo, una piccola parte del riquadro figurato, il listello e la fascia piatta superstite della cornice conservano ancora l’originaria finitura che consente di apprezzare ancora le caratteristiche cromatiche del marmo e di valutare la qualità del lavoro dello scultore. Difficile dire se questa estesa corrosione della superficie marmorea sia la conseguenza di una lunga esposizione in antico del rilievo o un esito del suo particolare reimpiego post-antico.
Venendo alla decorazione figurata del rilievo, essa risulta essere ripartita in tre scene, i cui riquadri, tutti delle medesime dimensioni (cm 47/48 x 38,5), sono scanditi da due eleganti lesene, composte da una base attica senza plinto, con toro inferiore e toro superiore separati da una scozia, da un fusto con scanalature rudentate e infine da un capitello ionico con volute e decorazione dell’echino appena accennata. La scena di destra presenta al centro, in posizione obliqua, un tirso, il bastone rituale attributo del dio greco Dioniso e dei seguaci del suo culto, satiri e menadi. Poco sopra la metà del tirso è annodato un nastro (tenia) da cui pendono a sinistra e a destra due grappoli d’uva. Ai lati di quello di sinistra, più grande e posizionato al centro del riquadro, sono raffigurate due pantere affrontate in posizione araldica; mentre un gallo, posto su un alto piedistallo, all’estremità destra della scena, becca il grappolo di destra, più piccolo. Sul lato opposto, sempre su un altro alto piedistallo, è raffigurato infine un'anfora munita di un basso piede a profilo troncoconico e caratterizzata da un’ampia pancia ed una spalla quasi orizzontale su cui si impostano due anse a volute che si raccordano al labbro dell’alto collo. Nel riquadro centrale sono invece visibili due cani che cacciano entrambi una lepre, contraddistinte da lunghe orecchie appuntite, ai lati dei quali sono posti due alberi, quello di destra verosimilmente un melograno e quello di sinistra forse un alloro. Il primo cane, posto più in alto, è raffigurato mentre morde uno dei due piedi posteriori della lepre; il secondo, posto subito al disotto e munito di un collare, azzanna invece la lepre sul dorso. La terza scena, di cui si conserva solo la metà di destra e per questo di più difficile lettura, mostra un paesaggio roccioso in mezzo al quale sono riconoscibili superiormente una pantera accovacciata e al disotto due serpenti che spuntano e strisciano tra le rocce.
Al chiaro riferimento al mondo dionisiaco degli oggetti (tirso, uva, anfora) e degli animali (pantera, gallo) raffigurati nel pannello di destra sembra corrispondere la presenza nel pannello di sinistra di altrettanti animali riconducibili al mondo di Dioniso (di nuovo la pantera e i serpenti). Riguardo invece alla scena dei due cani che cacciano altrettante lepri è possibile vedere anche in questa immagine un riferimento alla sfera dionisiaca. All’interno del mondo romano, infatti, la lepre viene descritta come creatura divoratrice del frutto sacro di Dioniso e pertanto spesso cacciata dai contadini e in seguito offerta in sacrificio al dio, motivando tale gesto come una salvaguardia dalla nociva abitudine di tale animale a rovinarne le viti. Significative in tal senso sono le immagini di lepri che si nutrono di chicchi d’uva presenti nelle figurazioni sepolcrali romane, quali inserti allegorici connessi alla figura di Dioniso.
Difficile è definire il contesto d’impiego del rilievo e cioè se sacro o più probabilmente funerario. Sulla base dello stile e della lavorazione scultorea, che fa uso del solo scalpello e limita l’impiego del trapano alla resa della bocca delle pantere, è possibile datare il rilievo tra la tarda età repubblicana e la prima età imperiale e quindi tra la fine del I sec. a.C. e l’inizio del I sec. d.C. (Stefano De Angeli)
Bibliografia: U. Agnati, Note di epigrafia pisaurense, in Epigraphica, 62, 2000, p. 277. Sul tema della caccia alla lepre in contesto dionisiaco si veda R. Merkelbach, I Misteri di Dioniso. Il dionisismo in età imperiale romana e il romanzo pastorale di Longo, Genova 1991, p. 79.
Fronte del rilievo tripartito dopo il restauro
Retro del rilievo tripartito dopo il restauro
Orologio solare in marmo
Materiale: marmo grigio a grana fine, verosimilmente lunense.
Misure: largh. cm 41; alt. cm 37; spess. cm 8,5.
Provenienza: ignota.
Collocazione attuale: Pesaro, Cenobio di San Bartolo, a sinistra del portale della Chiesa di San Bartolo.
Non è dato di conoscere se anche questo manufatto sia stato recuperato nell’aprile del 1991 a seguito dei lavori di manutenzione e restauro del Convento di San Bartolo. L’eventuale rinvenimento in questa occasione può consentire di supporre un suo precedente reimpiego all’interno del Convento, analogamente agli altri manufatti recuperati in occasione di tali lavori.
Il manufatto è costituito da una spessa lastra marmorea di forma quasi quadrangolare, di cui risulta ancora integro il lato superiore e sono ancora in gran parte conservati i lati destro e sinistro, mentre la parte inferiore della lastra presenta un’ampia lacuna. Il disegno inciso con uno strumento a punta sul lato principale della lastra mostra che si tratta di un orologio solare con quadrante di tipo orizzontale, che si distingue dagli orologi solari con quadrante di tipo sferico o conico. maggiormente diffusi nell’antichità. Poco sopra la metà della superficie, al centro, è visibile anche l’incavo dello gnomone, di cui si conserva ancora in situ il perno metallico, verosimilmente in bronzo. Il quadrante è costituito da 14 linee orarie diritte disposte a raggiera intorno allo gnomone, occupando la parte destra e inferiore della lastra marmorea. Le linee orarie hanno una lunghezza diversa: le estreme più corte, quelle centrali più lunghe. Le prime sei, a partire dall’angolo superiore destro, e forse anche la settima si generano dalla linea di delimitazione del quadrante solare, che corre parallela al limite destro della lastra, e si concludono quindi in un punto inciso sulla superficie della lastra marmorea. Tali punti si avvicinano progressivamente allo gnomone fino a raggiungerlo. Le altre sette linee orarie generano invece sempre da un punto inciso all’interno dello spazio del quadrante, ma staccato dalla sua linea di delimitazione, per concludersi poi in un altro punto prossimo allo gnomone o posto più a sinistra di quest’ultimo. Difficile dire, a causa della lacuna della parte inferiore della lastra, se la delimitazione esterna del quadrante proseguisse parallela al lato destro della lastra e quindi piegasse, verosimilmente ad angolo retto, con un andamento sempre parallelo al limite inferiore della lastra. Per motivi connessi alla tipologia e al disegno del quadrante, questo è privo delle tre curve parallele di declinazioni orizzontali, indicanti il solstizio di inverno, gli equinozi ed il solstizio di estate, che normalmente si incontrano negli orologi solari con quadrante di tipo sferico o conico. Ogni singola linea oraria è contrassegnata da un numero arabo. Sono ben leggibili i numeri: 9, 10, 11, 12, 13, 14, 18, 19, 21; la presenza dei restanti numeri compresi tra 9 e 21 è confermata dalla sequenza numerica. Riguardo all’ultima linea a sinistra, non contraddistinta da un numero (verosimilmente il 22), è incerto se si tratti di un’ulteriore linea oraria o della linea di delimitazione del quadrante solare. La numerazione araba è pertinente evidentemente a un'aggiunta posteriore, relativa a un riutilizzo dell’orologio solare di età medievale o moderna e che in alcuni punti è andata a sovrapporsi leggermente alle estremità delle linee orarie originarie (vedi il numero 19), alcune delle quali forse sono state anche allungate.
Restando all’analisi dell’orologio solare nella sua fattura antica, è molto probabile che la settima linea oraria, a partire sempre dall’angolo superiore destro, già contraddistinta dal numero 15 (oggi non più visibile a causa delle lacune della superficie del marmo), fosse la linea oraria centrale del mezzogiorno (12). Se così fosse, le linee orarie contraddistinte dai numeri 9, 10, 11, 12, 13 e 14, corrisponderebbero in realtà alle ore 6, 7, 8, 9, 10 e 11, mentre quelle contraddistinte dai numeri 16, 17, 18, 19, 20, 21, corrisponderebbero alle ore 13, 14, 15, 16, 17 e 18. A tal riguardo va precisato che per essere funzionante un simile orologio solare, e con esso la linea oraria centrale del mezzogiorno, doveva essere allineato precisamente con il meridiano locale (direzione nord-sud). Un errore di pochi gradi poteva alterare la lettura dell’orologio. È molto probabile che in occasione del reimpiego dell’orologio solare questo non sia stato orientato correttamente e che l’attuale lato destro della lastra (frutto forse di una complessiva rilavorazione del manufatto originario) sia stato orientato in direzione sud. Ciò spiegherebbe perché, in virtù di questo diverso orientamento, la linea del mezzogiorno sia diventata la quarta linea oraria, contraddistinta dal numero 12, vale a dire l’originaria linea oraria delle 9.
In considerazione del fatto che l’introduzione dell’uso dei numeri arabi in Europa è avvenuta a partire dal XIII sec. è possibile che tale reimpiego dell’orologio solare antico sia avvenuto in occasione della ristrutturazione della precedente chiesa altomedievale e della costruzione del Convento ad opera degli eremiti spagnoli Giovanni di Berengario da Valencia e Pietro di Gualcerano Barbarani da Villafranca di Barcellona, alla fine del sec. XIV.
Riguardo invece alla datazione dell’orologio solare antico, se è vero che a Roma gli strumenti per la misura del tempo furono introdotti già a partire dalla metà del III sec. a.C., tuttavia l’impiego del marmo, molto probabilmente lunense, ci rimanda a una datazione almeno all’età imperiale. Poiché gli orologi solari romani venivano usati in luoghi pubblici di rilievo, come il Foro, o anche in edifici pubblici e privati, in assenza di dati sulla sua provenienza è impossibile fare ipotesi sul suo originario contesto d’uso. (Stefano De Angeli)
Bibliografia: Inedito. Sugli orologi solari nel mondo greco e romano vedi: S. L. Gibbs, Greek and Roman Sundials, New Haven e London 1976; J. Bonnin, La mesure du temps dans l’Antiquité, Paris 2015.
Orologio solare prima del restauro
Orologio solare dopo il restauro